Nel dibattito contemporaneo sull’immigrazione si tende spesso a oscillare tra due estremi: da un lato l’emotività dell’accoglienza incondizionata, dall’altro la rigidità del rifiuto sistematico. Ma c’è una terza via, saldamente ancorata alla nostra cultura civile e politica: quella che riconosce la centralità dell’integrazione come patto reciproco e il diritto-dovere dello Stato di tutelare la coesione sociale anche attraverso strumenti come la ReImmigrazione.
Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” nasce da qui. Non è un’ideologia improvvisata, ma si fonda su una concezione etico-politica della cittadinanza attiva, che ha radici profonde nel pensiero italiano, in particolare in quello di Giuseppe Mazzini.
Nel suo “Doveri dell’uomo”, Mazzini scriveva: “I vostri diritti derivano dai vostri doveri compiuti”. È una frase che rovescia la logica individualistica moderna: non si parte dal diritto per arrivare al dovere, ma è l’adempimento del dovere che legittima il diritto. L’appartenenza a una comunità non si esaurisce nella presenza fisica su un territorio, ma si realizza attraverso l’adesione a un progetto comune, fatto di lavoro, istruzione, legalità, solidarietà. È lo stesso principio che informa il paradigma oggi proposto: non basta esserci, bisogna partecipare.
L’attuale modello migratorio italiano – e in parte europeo – tende a valutare il “diritto a restare” quasi esclusivamente sulla base del lavoro. Chi lavora può rimanere, chi perde il lavoro rischia l’irregolarità, a prescindere dal percorso umano e sociale compiuto. È una visione economicista, utile forse nel breve periodo, ma incapace di generare coesione a lungo termine. Il paradigma dell’Integrazione o ReImmigrazione propone invece una visione più ampia e strutturale: non solo lavoro, ma lingua, rispetto delle regole, partecipazione attiva alla vita della comunità. In questa prospettiva, il lavoro resta fondamentale, ma non è più l’unico criterio. Viene inserito in una logica di integrazione piena, culturale e civica, ispirata a una responsabilità reciproca tra ospitante e ospitato.
Il migrante che arriva in Italia non è semplicemente un individuo in movimento, ma un potenziale nuovo cittadino. Tuttavia, la cittadinanza non è un bene che si eredita o si concede per caso: è un cammino da compiere, un vincolo reciproco che si costruisce attraverso l’impegno e il rispetto. Da qui il senso dell’integrazione come criterio guida delle politiche migratorie. Ma quando l’integrazione non avviene – per volontà, per rifiuto, per estraneità radicale – lo Stato ha il dovere di porre un limite. È in quel momento che si attiva il secondo polo del paradigma: la ReImmigrazione.
Parlare di ReImmigrazione non significa criminalizzare, ma ripristinare un ordine giusto nelle relazioni tra individui e comunità. Significa riconoscere che non può esserci diritto alla permanenza senza dovere di appartenenza. Non per ideologia, ma per equità. E proprio questo, ancora una volta, ci riporta al pensiero mazziniano, dove libertà e responsabilità sono inscindibili, e dove l’identità collettiva si costruisce non sull’esclusione, ma sull’adesione consapevole a un patto di valori.
Questo approccio si distacca radicalmente tanto dal cinismo tecnocratico quanto dal sentimentalismo retorico. È un realismo etico che guarda all’immigrazione non solo come sfida gestionale, ma come prova di coerenza e maturità civile. L’Italia può e deve accogliere, ma può e deve anche chiedere. Perché una società giusta non è quella che esclude, né quella che tollera tutto, ma quella che educa, integra e – quando necessario – riorienta.
In questo senso, il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” non è una rottura, ma una continuità con la migliore tradizione politica italiana, e con quel pensiero mazziniano che assegnava al cittadino un compito alto: essere parte attiva, cosciente, e solidale nella costruzione della propria patria.