Un noto e abusato adagio, che ormai da decenni ci perseguita divenendo una sorta di mantra è che “siamo quello che mangiamo”. Pare che tale affermazione sia stata concepita ed espressa per la prima volta dal filosofo tedesco Ludwing Feuerbach (1804-1872), appartenente alla cosiddetta sinistra hegheliana.
La riflessione che appare immediatamente evidente, ammettendo un’affermazione di questo genere, è il suo aspetto riduzionistico, poiché comprime ad unico parametro, quello appunto alimentare, l’immenso e complesso universo a cui fa riferimento l’Uomo, in realtà composto da numerosissimi fattori: dalla genetica all’educazione, dalla socialità alle influenze anche culturali che esse determinano, dall’ambiente alla relazione con gli altri esseri appartenenti, in ultima analisi, a quelli che molto genericamente abbiamo suddiviso in mondo animale, vegetale e minerale. Purtuttavia, partendo da tale affermazione, specialisti di ogni dottrina, dalla psicologia alla scienza nutrizionale, agli studiosi del comportamento si sono sbizzarriti in ricerche, studi e riflessioni di ogni tipo, offrendo speculazioni e proponendo modelli di vita quasi sempre rigidi, che a volte rischiano un approccio ideologico, quando non religioso.
A quella prospettiva tento di avanzare un approccio diverso, anche se certamente non definibile innovativo, che suona in questo modo: “noi siamo quello che pensiamo”. In altre parole, se siamo ciò che pensiamo, cioè se in ipotesi i nostri comportamenti potessero essere coerenti e speculari o comunque semplicemente conseguenti al pensiero a cui giungiamo in ragione del nostro grado di consapevolezza e, ancora, se il nostro pensiero avesse la possibilità di essere da noi compreso nel suo più profondo senso e significato, sempre che lo volessimo, allora, probabilmente, cambiare si potrebbe davvero. Tale riflessione, come dicevo non certamente nuova, viene attribuita al Gautama Buddha già 2.500 anni fa.
Partiamo allora da un fatto che ad un primo acchito potrebbe apparire alquanto strano, ma che sta accadendo realmente ai giorni nostri. Per chi appartiene alla mia generazione, quella dei settantenni, dovere registrare che in Italia e più in generale nel mondo occidentale si stia verificando il cosiddetto fenomeno definito “great resignation” o più semplicemente delle grandi dimissioni volontarie, davvero lascia senza parole. Lasciatemi dire, altro che ripristino del famoso Art.18! Siamo cresciuti con l’idea della sicurezza del posto di lavoro, dando per scontato che a nessuno sarebbe mai passato per la mente di dimettersi da un posto di lavoro fisso senza avere un’alternativa sicura. A questo proposito uno studio della società Randstad (impresa multinazionale olandese che si occupa di “risorse umane”) riferito al nostro territorio nazionale nel 2023, evidenzia che ben il 29% dei lavoratori starebbe cercando attivamente un nuovo impiego. Tale percentuale incrementa al 38% nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 34 anni. Le società interessate a questo fenomeno rappresentano il 44% del totale.
La prima considerazione è che dobbiamo tenere conto che per grande parte della nostra comunità, tipicamente la più giovane, il valore del lavoro, pur essendo uno dei princìpi fondanti della nostra Costituzione, viene posto in seconda, terza o forse ancor minor elevata posizione nella scala delle priorità. Intendiamoci, i nostri giovani non si sono trasformati improvvisamente in “fannulloni”, come qualcuno scioccamente sostiene, ma si aspettano di vivere una vita nella quale il lavoro non sia una condizione di alienazione dell’uomo, al contrario ritengono con convinzione che esso debba rappresentare un’occasione di espressione in grado di liberare i talenti e le aspettative di ognuno, un luogo ove impegnarsi per ciò che si ritiene abbia un senso e un significato compiuto, al fine di vivere un’esistenza piena e soddisfacente. In ultima analisi, in una ipotetica bilancia che contemplasse due piatti, quello del Diritto e quello del Dovere al lavoro, il primo avrebbe assolutamente il maggiore peso.
Già, del Dovere al lavoro non si parla quasi mai o quasi più, eludendo la primaria esigenza sociale presente in ogni comunità civile, che impone ad ogni suo componente di contribuire, appunto con il proprio lavoro, al suo massimo sviluppo. Ritengo convintamente che su tale tema si dovrà orientare fattivamente il nostro sforzo educativo, sia pubblico che privato.
Nei colloqui di recruitment riferiti tipicamente alle posizioni medio-basse, ma non solo, dal candidato sempre più di frequente vengono richiesti non tanto le informazioni circa la tipologia del lavoro offerto in termini professionali, oppure di possibilità di crescita o i percorsi di carriera possibili, quanto piuttosto l’attenzione e l’interesse sono rivolti alla retribuzione, agli orari, ai giorni di ferie o alle ipotetiche necessità di ore straordinarie. Si può in altre parole verificare il crescente focus sui temi relativi alla remunerazione del lavoro, ma anche alla difesa strenua del cosiddetto “tempo di non lavoro”.
Certamente, dimettersi, rinunciando ad un lavoro sicuro per gettarsi nel mare magnum di un mercato sempre più incerto, rappresenta un rischio molto elevato, a maggior ragione nel nostro paese, nel quale non si favorisce purtroppo sufficientemente la nascita di nuove start up, sia da un punto di vista fiscale che finanziario, condizioni indispensabili per facilitare e incentivare il nuovo e crescente orientamento all’imprenditorialità che oggi si presenta.
Se da un lato, dunque, assistiamo al già detto fenomeno della great resignation, dall’altro il sistema delle imprese denuncia una importante difficoltà di reperimento di personale sia per i livelli specialistici più elevati, sia per quelli cosiddetti “generici”, difficoltà mai registrata in queste dimensioni. Non dimentichiamo infine il numero ancora troppo basso dei laureati nel nostro paese.
Ora, abbiamo per un verso tanti giovani non disposti a sottostare ad una condizione di dipendenza, lasciatemi dire, “tradizionale” in imprese che spesso denotano strutture organizzative rigide, nelle quali il collaboratore è gestito secondo modalità di tipo prescrittivo e deresponsabilizzante, a maggior ragione nelle posizioni più manuali considerate non all’altezza degli studi fatti o comunque non in linea con le proprie aspettative; per un altro verso vediamo giovani pronti a studiare e imparare, magari al di fuori dei tradizionali percorsi istituzionali, mostrandosi disposti a rischiare, in cambio naturalmente di una adeguata autonomia. Tale postura giunge molto spesso fino all’assunzione del rischio d’impresa. Ergo, domanda e offerta di lavoro trovano sempre meno punti di intersezione. E tutto ciò produce importanti conseguenze.
Analizzando i dati Eurostat, scopriamo che, a proposito di offerta, il livello dei salari e delle retribuzioni italiane sono tra le più basse d’Europa e la competenza, piuttosto che il cursus studiorum dei giovani che si affacciano sul mercato del lavoro sono spesso sottostimati dagli imprenditori o persino non riconosciuti per il loro valore, nonostante la loro sostanziale scarsezza.
Se dunque i pensieri, che muovono e a volte agitano le menti prevalentemente delle nuove generazioni, sono quelli che abbiamo tentato sommariamente di elencare, quindi la necessità di autonomia, remunerazioni più soddisfacenti, crescente propensione al rischio anche imprenditoriale, maggiore flessibilità degli orari per meglio gestire i tempi di non lavoro, ecc., au contraire il “sistema” ripropone quasi sempre modelli organizzativi statici, quasi immobili, spesso ancorati alle rigidità che hanno contraddistinto il passato e che si presentano raramente davvero meritocratici.
Ne consegue che, se la nostra ipotesi del “siamo quello che pensiamo” risultasse corretta, la condizione di mismatching sopra rappresentata non avrebbe potuto che provocare, come effettivamente è accaduto, nuove e difficili situazioni sociali, assai diverse rispetto al passato.
Solo a titolo di esempio vorrei evidenziare un dato evidenziato da ISTAT nel febbraio di quest’anno (2025), che ben mostra la condizione contradditoria e di disagio sopra esposta: oltre 191.000 italiani nel 2024 hanno lasciato la madre patria per assumere la residenza all’estero (+20,5% su 2023), contro i circa 66.000 arrivi via mare di immigrati sul nostro territorio nel medesimo periodo (Fonte OPENPOLIS). Si aggiunga che dal 2011 al 2024 sempre l’ISTAT ci informa che gli emigrati italiani all’estero, considerando solo quelli di età compresa tra i 18 e i 34 anni, normalmente la fascia con maggiore grado di istruzione, sono stati più di 691.000. Ad colorandum, registriamo inoltre il crescente numero di giovani che, pur non lavorando né studiando, non sono più alla ricerca di lavoro (migliorando, peraltro paradossalmente, i dati circa le percentuali relative alla disoccupazione). Sono quelli che, almeno temporaneamente, hanno smarrito la speranza nel futuro.
Detto ciò, la domanda che sorge spontanea è: where is the beef? Io ritengo che la nostra economia e più in generale la nostra comunità, per mille ragioni che non posso qui affrontare per limiti di spazio, abbiano bisogno di fare rientrare le preziose competenze di chi ha scelto di muoversi verso altri Paesi anche a causa della bassissima attrattività, intesa in senso lato, offerta dal nostro sistema nazione; dobbiamo essere altresì in grado di fermare tale emorragia; nel contempo, abbiamo la necessità di coprire le tantissime posizioni organizzative vacanti, sia nel privato che nel pubblico, tramite una gestione intelligente del rapporto scuola/università/formazione/offerta disponibile, soddisfacendo i fabbisogni presenti, ma soprattutto con gli occhi rivolti verso quelli futuri, in ragione dei continui mutamenti che l’evoluzione tecnologica presenta.
In questo contesto occorre avere una visione precisa circa l’immigrazione, che, se ben gestita, può rappresentare un’opportunità straordinaria da impiegare utilmente nel mercato del lavoro. Non ultimo per importanza, dobbiamo essere capaci di modificare le nostre organizzazioni aziendali affinché possano funzionare sempre meglio in accordo con le aspettative delle generazioni che saranno chiamate a dirigere il nostro paese in un futuro prossimo.
Coniugare tali nuove tendenze sociali, che qualcuno definisce “post-post moderne”, con il fine di ricomporre le contraddizioni che naturalmente ne derivano, può rappresentare una delle prioritarie scommesse per il futuro, nella consapevolezza che senza combinare il combustibile derivante dal pensiero e dalla passione delle persone con il comburente originato dalle opportunità offerte, la combustione della crescita e del benessere della comunità non potrà avvenire in modo soddisfacente. Io ritengo che lo si possa fare, perché, lo ripetiamo, in definitiva noi siamo ciò che pensiamo e ciò ci dà la forza di cambiare.