“Da codesta diversità nasce la prima differenza riconducibile ai rapporti morali tra l’uno e l’altro sesso. L’uno deve essere attivo e forte, l’altro passivo e debole; bisogna necessariamente che l’uno voglia e possa, basta che l’altro resista poco. Stabilito questo principio, ne segue che la donna è fatta specialmente per piacere all’uomo.”
J.-J. ROUSSEAU
Negli anni 60 mia madre aveva vent’anni. Lavorava da almeno 5 ed era ormai una donna indipendente e a suo modo moderna. Amava ballare e il suo esercizio fisico era quello, punto. Non ha mai fatto palestra o allenamenti e mai ci ha pensato.
Per questa ragione mi sembrava quasi scontata l’occhiataccia sospettosa che mi lanciava quando uscivo per andare in palestra o a correre. Ho sempre pensato fosse solo un po’ pigra…e invece probabilmente mi sbagliavo. E sì perché, quando mia madre aveva vent’anni, medici e federazioni sportive erano unanimi nel mettere in guardia le donne dagli effetti devastanti dell’esercizio fisico. Ad esempio: correre fa migrare l’utero (si, avete capito bene!). Quindi le donne possono correre per piccolissime distanze (massimo 1,6 km) o altrimenti addio fertilità. Fertilità compromessa anche a causa dell’eccesso di muscolatura che una donna che fa esercizio non può evitare di implementare a dismisura a scapito della capacità (e desiderabilità) riproduttiva. Per non parlare poi del decoro: le donne, gli angeli del focolare, mamme sorelle e mogli…sudate a causa dell’esercizio fisico proprio non sta bene…Vorrei fermarmi qui, ma la considerazione comunemente accettata includeva in questo meraviglioso pacchetto anche altre caratteristiche intrinseche alla femminilità e nello specifico: la fragilità (il corpo femminile partorisce, ma non riesce a reggere una maratona) e quello della scarsa energia (le donne hanno una quantità limitata di energia intellettuale e fisica…se studiano o fanno esercizio non rimane abbastanza energia per la riproduzione). Mia madre aveva vent’anni quando queste affermazioni, fatte da medici o pseudo tali erano seguite e sostenute da regolamenti ufficiali delle federazioni sportive. Ne ha 26 quando però una donna fa capire che sono tutte sciocchezze nate da una cultura specifica e non frutto della natura.
Nel 1966, Bobbi Gibb infatti, sente un richiamo irresistibile per la Maratona di Boston (uno degli eventi più prestigiosi al mondo). Si è allenata da sola, senza scarpe da corsa, senza allenatore, e ha attraversato gli Stati Uniti nel suo furgone Volkswagen per prepararsi spiritualmente e fisicamente. Quando la Boston Athletic Association (BAA) respinge la sua richiesta di partecipazione perché donna, Bobbi decide di correre lo stesso. Si nasconde tra i cespugli e si unisce alla gara dopo lo sparo d’inizio. Arriva al traguardo in poco più di 3 ore e 21 minuti, davanti a due terzi dei concorrenti maschi. Ovviamente di fronte ad un risultato del genere, viene facile ipotizzare la nascita di un dibattito costruttivo attorno a tutta questa questione. Viene da immaginare un mea culpa collettivo…che ovviamente non è avvenuto. Dopo la sua corsa storica, la posizione ufficiale della Boston Athletic Association rimase ambivalente. Will Cloney, il direttore della gara, inizialmente mise addirittura in dubbio che Gibb avesse davvero corso la maratona. In un articolo del Boston Traveler datato 20 aprile 1966, il giorno successivo alla maratona, Cloney dichiarò:
“La signora Bingay (Gibb) non ha corso nella maratona di ieri. Non esiste una maratona per una donna. Può aver corso in una gara su strada, ma non ha gareggiato nella maratona. Non ho idea di questa donna che corre. Non era a nessuno dei nostri checkpoint e nessuno dei nostri controllori l’ha vista. Per quanto ne so, potrebbe essere entrata a Kenmore Square.“. In realtà però qualcosa iniziò lentamente a muoversi.
Ovviamente questa affermazione è stata smentita dalla partecipazione di Bobbi Gibb alle maratone di Boston nei due anni successivi (lo specifico per i malpensanti).
L’anno dopo, Kathrine Switzer si iscrisse ufficialmente alla maratona di Boston del 1967 con il nome “K.V. Switzer”, utilizzando le sue iniziali, un’abbreviazione comune nei documenti ufficiali dell’epoca soprattutto nello sport, e nessun riferimento esplicito al genere. In quel momento il regolamento della gara non menzionava esplicitamente il divieto di partecipazione alle donne (ricordiamoci che era scontato che solo gli uomini potessero correre quelle distanze) e questo permise che la sua iscrizione passasse inosservata agli organizzatori, i quali pensarono si trattasse di un uomo.
Il giorno della gara, Kathrine Switzer ottenne il pettorale numero 261 e si presentò alla partenza senza travestirsi da uomo. Anzi, scelse volutamente di indossare rossetto e orecchini, sottolineando la sua femminilità e dimostrando che anche una donna poteva essere forte e correre una maratona, senza dover rinunciare all’identità femminile
A metà gara, venne aggredita fisicamente da Jock Semple, uno degli organizzatori, che tentò di strapparle il pettorale urlando che doveva uscire dalla gara. Il gesto, violento e fotografato, fece il giro del mondo. Switzer finì la gara in 4 ore e 20 minuti. Non solo aveva corso: aveva resistito.
Anche questo è stato un tassello importante, anche l’opinione pubblica fu molto colpita da questa storia e soprattutto dalle immagini riprese dalla macchina fotografica.
Vi anticipo che nonostante le evidenze, fu solo però nel tardo 1971, in seguito a una petizione di un’altra atleta di nome Nina Kuscsik all’AAU (Amateur Athletic Union) che le regole cambiarono e iniziarono ad essere autorizzate ufficialmente le maratone femminili.
Che dire…forse mia madre non era pigra era semplicemente il prodotto culturale della sua epoca…come lo sono io che ho la fortuna di essere nata nel 1972.